Cinque secondi di troppo

racconto scritto in fretta, mai rivisto ma a cui sono molto affezionato

Cinque secondi di troppo

Del mio desiderio di conoscere il futuro mi sono rimasti solo questi cinque secondi di troppo, questo scarto interminabilmente breve fra l’accaduto e il percepito. Sulla scena del delitto della mia ingenua arroganza sono al contempo l’assassino in fuga, l’uomo che vibra il corpo mortale, l’investigatore distratto e annoiato da tracce fin troppo evidenti ed il coroner che chiude la nera sacca su degli occhi che non potranno mai più essere chiusi. Resto vittima inerme di un attimo irripetibile ed eterno, chino sulla mia salma ormai fredda, con le mani ancora lorde del mio sangue, gli occhi sbarrati in contrasto con il progressivo irrigidirsi di muscoli e nervi, indifferente e palpitante al tempo stesso. Il ripetersi continuo degli eventi mi lascia ogni volta sperare in una diversa evoluzione, un’alternativa concatenazione degli attimi che porti ad un finale diverso ma il futuro, che mi è già noto, continua a reiterarsi anonimo e meccanico, senza sciogliermi dall’illusione di un cambiamento.

Pensare che si trattava solo di una scatola con fili colorati.

Il cronoscopio giocattolo che sono divenuto, il telescopio panoramico da venti centesimi al minuto, si ostina a gettare il suo sguardo cieco in lontananza, ma l’unica cosa che riesce davvero a mettere a fuoco, con una nitidezza innaturale per il poco prezzo, è la sua stessa lente crinata, offesa dal vento e dall’uso continuo del mio turismo distratto ed inevitabile sull’onda del tempo. Quando pensi di aver trovato qualcosa di interessante da inquadrare , clank, cade l’otturatore, ed ogni volta ti trovi a ricominciar quasi da capo nella ricerca della vista che avevi scelto, come la guida turistica dei tuoi desideri irriverenti ti aveva mostrato. Quasi da capo.

La mia esistenza è ormai questa vibrazione di disgusto fra due punti mobili, questo passo del gambero cronosclerotico, uno avanti e uno indietro, come una battaglia a scherma con un avversario di spalle che avanza, ogni volta, esattamente della lunghezza del mio fendente, come io faccio con il suo, e ancora, ancora, ancora.

Anche scrivere questa mia ultima lettera è un’impresa, con le parole che si compongono davanti ai miei occhi prima che le mie dita battano sui tasti e, spesso, prima ancora che la mia immaginazione minata da inusuali percorsi le concepisca.

Fossi riuscito a guardare più avanti. Un giorno sarebbe stato, forse, ancora poco, ma due, tre, una settimana, o mesi, anni…come speravo. Non questi dannati cinque secondi. In questo tempo la luce proveniente da un milione e mezzo di km riesce a raggiungere le mie retine, e se avessi i mezzi per carpirne il codice, potrei trovare segreti provenienti da mondi lontani. Invece, purtroppo, cinque secondi sono esattamente il giusto scarto per far sì che la vita che mi scorre davanti riesca a perdere ogni attrattiva. Insufficienti per far appassire un fiore, inutili se si legge un articolo di giornale, appena necessari per bere un caffè. Che significato hanno però i sensi se il cervello ha già elaborato tutto, lo ha raffreddato nel magazzino della memoria, lo ha privato delle sensazioni della sorpresa, dello stupore. E’ peggio persino di restar delusi. Questa non è una pipa, questo non è un caffè, e quando le mie papille si estasiano per lo zucchero, e si contraggono peri il calore, già tutto è stato già vissuto, ed è come ingozzarsi del liquame funereo della storia passata.

Pensavo di poter vedere il creato dalla più alta montagna del tempo, raggiungendo così, da quell’altezza che tutto eguaglia, se non la felicità, quella pace indifferente che rende i dettagli irrilevanti senza eluderli, come i singoli granelli di sabbia in un mandala.
Anche senza poter raggiungere questo, lo sguardo equo e forse ormai fossile di Dio, avevo la speranza di prevedere incidenti, salvare vite, smascherare truffatori, o anche vincere scommesse, prevedere risultato di partite ed eventi sportivi. Un mondo di eroismo e piaceri sibaritici si apriva allora al mio occhio immaginativo che ora giace atrofizzato e secolare nel labirinto senza uscita della mia esperienza sensibile. Vivo ora invece la nevrosi del geloso cronico, dell’invidioso maniacale. Il tradimento è solo una possibilità remota ma già ha minato ogni rapporto, e tutti gli sforzi che si potrebbero fare per salvare un amore tendono invece a concretizzare il realizzarsi dell’evento che si vorrebbe scacciare.
Ogni mio gesto, ogni mio pensiero perde senso e peso già prima di materializzarsi ed accadere, e non per dilinguersi nell’illuminazione dell’ascesi, ma diventandomi insopportabile come un organo atrofizzato, un inutile braccio morto che penzola ridicolo e beffardo dal centro del mio torace.

Anche ora che ricordo il mio primo, intenso, momento di esaltante scoperta, il pensiero corre avanti, e si moltiplica, perché il ricordo che concepisco è già rievocato cinque secondi prima da questa mia seconda vista, e la consapevolezza di questo fatto è prima una realtà indotta e poi concepita, e ancora, e via, e via, fino a quando, con un enorme sforzo che non so quanto ancora potrò reggere, spezzo la catena, creo il vuoto intorno a me, mentre l’eco di questo mio pensiero frattale non si spegne del tutto, ma si allontana, in agguato. Sono la mente viva di una eco infinita.

Anche ora che ricordo il primo, intenso momento di esaltante scoperta, la mia seconda vista corre avanti, anticipa il mio pensare, e l’immagine successiva della mia memoria è già vecchia, soppiantanta da quella di questa mia, petulante, e così la terza, in un accumularsi di sterili doppioni del mio vissuto, che non riesco a buttar via e si sovrapppongono.

Ero là una settimana prima e sono là adesso, ma sono stato qui e sarò di nuovo là fra e cinque secondi, come lo sono stato cinque secondi fa, e ancora fra cinque, in un moltiplicarsi dello stesso vissuto che rende insapore anche l’inganno dolce della memoria, lasciando strascichi nel tempo, nel futuro e nel passato, un’immagine stroboscopica di me a cui manca solo l’oggetto presente che l’ha generata e che ormai si va sempre più assottigliando, in un presente incerto che perde pian piano concretezza.

Ero là, banalmente appena sveglio, per nulla sorpreso dal giorno nuovo, senza nessuna intuizione del successo ottenuto. Osservavo, dall’alto del mio metro e ottanta, il mio letto disfatto e, allo stesso tempo, disteso su quelle stesse lenzuola, ora così orrendamente violate, come se un estraneo mi avesse sorpreso in un momento di intimità, contemplavo ancora, confuso dal risveglio insofferente, la luce granulosa del giorno che si rifletteva sulla parete di fronte. Sorpreso da quella sorta di visione, un’illusione ipnagogica pensai, l’inganno della mente ancora confusa fra il sogno e la veglia, mi alzai e mentre stupito fissavo il letto, mi avvicinavo alla cucina sicuro che una tazza di caffè mi avrebbe del tutto sottratto a quello stato, non del tutto spiacevole, ma spiazzante, come l’attrazione repulsiva che si prova fissando uno splendido paesaggio da una terrificante altezza. Mentre mi muovevo di nuovo verso il salotto, lasciando quindi un altro me a fissare quel letto ancora vuoto, sentì un forte dolore innervarmi la caviglia, strappandomi nel presente un grido acuto che, contemporaneamente, ma cinque secondi nel futuro, trovava giustificazione nello spigolo basso di una cassettiera che, distratto dai miei pensieri, avevo urtato.

Non sapevo cosa fare in effetti. Il dolore, raddoppiato nell’effetto e nella causa, mi aveva sì strappato alla confusione, insinuandomi nel cervello il tarlo, ancora cauto, dell’entusiasmo, ma non riuscivo ancora a riunire tutti i dettagli. Due volte mi versai il caffè, due volte lo bevvi, e anche se l’effetto desiderato fu univoco e irripetibile, il gusto si ripeté identico ai miei sensi. Fu la prima volta che la differenza fra rievocato e percepito si mostrò alla mia attenzione, ma ancora entusiasta da quello che aveva tutto l’aspetto di un esperimento riuscito, non mi preoccupai troppo di riflettere sui dettagli.

Esiste una differenza fra il corpo e la mente, una scala gerarchica, una lotta alla supremazia. Ora lo so, e forse già in quel momento cominciai ad essere cosciente, in profondità, anche se ignoravo di essere riuscito, forse primo fra molti, a fornire i fronti opposti di quel conflitto, di nuove e letali armi. Il campo di battaglia, e questo davvero mi sfuggiva, ero io.

Pausa poi comincia la riflessione.

Cosa sono io? La domanda è tanto mal posta che se avessi ancora la possibilità di ridere lo farei. Ma chi berrebbe all’infinito lo stesso vino, se pur squisito? L’unica salvezza che mi resta è l’atarassia, o l’annientamento. Sarebbe meglio chiedersi quando sono io, o dove sono io, o quanti sono io. Il cosa è irrilevante e ridicolo. Io sono una frazione, una particellizzazione della mia esperienza, un’assenza del presente. Il tempo non è fisico, è totalmente percettivo. Ora lo so.
La sopravvivenza è nell’attimo. Il tempo si disgrega nel momento stesso in cui lo generiamo, e si ricrea, e si disgrega, restando immutabile, Ogni cosa resta sempre la stessa, e in qualche modo non lo è. Mi allontano in una direzione per tornare indietro.

Tutto successe quando la baciai. Quelle labbra erano state capaci davvero, letteralmente, di fermare il flusso delle cose, ma adesso mi rendo conto che anche quello era un inganno. Un bacio è già stato dato prima che il desiderio inizi a fermentare, ed è già stato immaginato mille volte. Quello che credevo un miracolo è poca cosa ora, e quello che più mi sconvolge è sapere che lo era anche allora. Quando mi credevo perso nella rete dei miei sensi, fuso all’universo di lei, concatenato in un vincolo che escludeva il resto, un momento di dedizione assoluta, in realtà ero schiavo di un’illusione romantica. La mente non è mai completamente dedita, il tempo non si ferma mai davvero, il presente non si fossilizza nel desiderio. Così, anche quando mi credevo abbandonato
a lei, perso in lei come se non ci fosse davvero più nulla d’altro al mondo, ora so che mi i miei pensieri quotidiani continuavano a distrarmi, gli affanni e le preoccupazioni non erano state scacciate dall’amore. Le mie labbra sulle sue, il suo corpo tiepido che scaldava il mio non erano davvero capaci di cancellare ogni cosa. Questi cinque secondi di troppo mi hanno donato la consapevolezza, come desideravo in fondo, ma non so più davvero che farmene.

Allora non lo sapevo ancora. Ebbro del successo, appena infastidito dalla premonizione, questa sì illusoria, che qualcosa non andasse, altro non pensai che a chiamare lei. Quanti sogni sul futuro fatti insieme, quanti progetti, quante delusioni nel vedermi impazzire dietro una scatola di metallo e dei fili colorati. Il futuro non è che di cinque secondi, e questi cinque secondi sono il vuoto, la riduzione ad attimo del nulla che tutto avvolge.

La chiamai immediatamente. Il dolore alla gamba risuonava ancora come un’onda della mia percezione, e mi teneva sveglio. Anche mentre aspettavo che rispondesse capii che potevo analizzarlo. Non come si analizza una sensazione che ci colpisce d’improvviso, ma come si guarda una lettera scritta tanti anni prima, o come ci si vergogna di un sentimento futile che all’epoca ci sembrava grandioso, imponente. La distanza. Avevo conquistato la distanza. Ora si trattava solo di tarare, di migliorare, aumentare lo scarto fra percepito e rievocato, di rendere il tutto controllabile, di mettere un giogo al tempo.
La sua voce risuonò incerta nella cornetta, e la gioia di sentirla si spense, perché, prima che le mie orecchie si beassero del suono noto della sua voce, qualche mio nuovo senso aveva già consapevolezza di quell’evento tanto atteso, e si era già messo in moto, chissà da quali ere distanti, per banalizzarlo, violentarlo, immiserirlo. Faticai a rispondere, ma già sapevo che l’avrei fatto, le parole che avrei detto, e mi ritrovai a seguire un copione già vecchio.

Per indurla a venire da me, e chissà come avrei riempito quell’attesa infinita che già sapevo avrei dovuto affrontare, restai sul vago, le dissi di un successo, di un cambiamento, della possibilità di un ritorno, di un nuovo inizio. Conoscendo già l’effetto che le mie parole avrebbero avuto su di lei avevo tutto il tempo di cambiare, di moderarle, di adattarle al suo umore diffidente. Quei cinque secondi che inizialmente mi erano sembrati solo un timido inizio, rappresentavano allora per me tutto il tempo del mondo. Alla fine riuscì nel mio scopo.

Non saprei ora raccontare dell’attesa che seguì. L’emozione del rivederla filtrava ogni volta tra le sabbie infide della mia appena acquisita capacità, ed ogni volta che dei passi sulle scale mi avrebbero fatto sobbalzare, il sapere immediatamente che non era lei mi riempì di una innaturale calma. Conoscendo tutti gli errori che sull’onda dell’emotività avevo cocciutamente portato avanti, ero sicuro che, ormai padrone dei miei sentimenti, non avrei più sbagliato, che l’avrei conquistata con la pazienza propria del giocatore di scacchi, o del fiume atavico che taglia la vallata, metro dopo metro, secolo dopo secolo.
Decisi di stupirla. Prima ancora di sentire il suono del campanello ne ero cosciente, e riuscì ad aprire la porta quando ancora il suo dito titubante doveva posarsi sul pulsante. La sensazione fu terribile. Il non verificarsi di un evento che avevo previsto, il mancare alla percezione di quel suono squillante, prolungato, mi colpì allo stomaco come un’ondata di nausea. Pensai che doveva essere quella la sensazione di chi, svegliandosi in assenza di gravità, pensi di trovarsi in una certa posizione ed invece viene invaso dal terrore proprio di chi scopre il proprio mondo capovolto. I sensi sono antichi ma allo stesso tempo come dei fanciulli difficili da rieducare. Si può spiegare loro che una cosa è differente da come l’avvertono, ma continueranno ostinatamente, ottusi, a seguire l’unica strada che conoscono. Riuscì a riprendermi appena prima che la sua espressione stupita si trasformasse in paura.

Naturalmente proseguii nella mia strategia, riuscendo a rispondere alle sue domande con quelle risposte che, già sapevo, l’avrebbero accontentata o, meglio, evitando quelle che maggiormente l’avrebbero delusa. Non riuscì, però a convincerla del tutto. Quei cinque secondi erano appena sufficienti per salvarsi da una momentanea gaffe ma totalmente inutili se si cercava di andare avanti in un ragionamento. Tanto feci e mi sforzai che riuscii a convincerla a rimanere. Sicuro dell’affetto che provava per me, approfittai più di quello, più della voglia di volermi credere, anche dopo tante disillusioni, che delle mie reali argomentazioni. Nel frattempo quella sorta di mia seconda vista, in anticipo su ogni reazione di lei, mi permetteva di analizzare ogni sua reazione. Quei suoi repentini cambiamenti d’umore che tanto mi avevano commosso e impaurito in passato, ora, dopo il vaglio del mio nuovo talento, erano semplici codici da decifrare. L’incurvarsi degli angoli della bocca, il vibrare delle orecchie, una certa particolare postura delle mani, il sedersi in pizzo alla sedia quando veniva presa in contropiede, non erano più parti di un linguaggio amoroso ed indecifrabile che è parte misteriosa della seduzione, ma dettagli autonomi i quali, man mano acquisivano valore nel campo della mia conoscenza del loro significato, venivano svestiti di ogni fascino affettivo. Quando finalmente cedette al mio abbraccio lei, per me, era già cosa morta. Le nostre bocche, inevitabilmente si toccarono, ma già il sapore di lei mi era noto, il fiato stagnante del risveglio recente, il movimento abbandonato e desideroso della lingua, il fremito delle labbra. Quando il bacio reale arrivò, cinque secondi dopo, non c’era in me altra sensazione che l’indifferenza, se non il disgusto.

Lei, donna non evoluta nel regime del tempo, atavica appartenente alla mia razza, preda ancora dell’illusione del presente, se ne accorse e si ritirò, con un disgusto pari al mio. Non trovai motivi per trattenerla.

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