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Primo amore che ritorna da Rubini a Garrone – esperimento di citica in tono lieve.

Primo amore che ritorna

da Rubini a Garrone-esperimento di citica in tono lieve.

Contrariamente alle mie abitudini che mi portano ad essere di una puntualità estrema, e anzi ad anticipare troppo spesso l’orario dei miei appuntamenti- abitudine che mi costringe a lunghe attese solitarie- giusto pochi giorni fa sono arrivato in ritardo ad una proiezione. Convinto che, per un refuso su di un giornale di provincia in quella sala avrei assistito ad un certo spettacolo e arrivando di gran corsa, confuso dall’asfissia e dalla fatica che mi comprimeva il petto, ho pagato il biglietto senza troppo guardarmi intorno, con grande vergogna sono poi entrato in una sala già buia e quasi vuota, e reprimendo per eccesso d’educazione il rantolo che mi saliva dalla gola, mi sono seduto di fronte ad un film iniziato già da alcuni minuti. Essendo rimasto piacevolmente sorpreso dall’esordio commerciale di Garrone con “L’imbalsamatore” (altri suoi film avevano avuto giustamente una distribuzione talmente ristretta che si può dire che questo fosse davvero il suo esordio) ed avendo intuito, dalle prime immagini che al suo nuovo film non stavo assistendo, ho avuto per una volta il privilegio di una piccola avventura come se ne leggono solo nei racconti degli scrittori del dopoguerra e che in questo periodo di internet, trailer e anticipazioni, è sempre più rara: la sorpresa andare al cinema senza sapere cosa si andrà a vedere, lasciandosi un po’ vivere dall’evento. Il film che mi era toccato in sorte era, lo capì ben presto e non senza una punta di fastidio, “L’amore ritorna”, ultima opera di quel Rubini regista, anche di se stesso, che non ero mai riuscito ad apprezzare veramente in occasioni dei suoi precedenti lavori. Tutto quello che nelle sue opere c’era di buono sembrava però essersi qui addensato come la materia gassosa intorno ai bracci di una nebulosa incandescente e, grazie a chissà quale calore e quale gravità, aver raggiunto un livello superiore, scremandosi da quei detriti galleggianti che troppo spesso minano le cose buone che affiorano, quasi per caso ultimamente, nel nostro cinema. Tutti i tratti salienti dell’opera di questo autore, il tono favolistico, l’ambientazione popolare, l’aspetto tragico della vicenda, sembravano per la prima volta disporsi nel giusto senso ed acquisire per questo motivo una luce nuova, una leggerezza narrativa piacevolissima ed una ferocia che, se anche può trovare le sue radici sia nella cronaca che in un certo nostro cinema passato, non è risultata per nulla di maniera. Non che in questo film mancassero difetti o sovrabbondanze (penso per esempio alle troppe storie narrate, ad una avventurella mancata accorsa al padre del protagonista), ma tutte queste impurità sono passate in secondo piano ed anzi, forse, hanno arricchito un piatto che altrimenti rischiava di apparire poco saporito visto l’equilibrio degli ingredienti. A nobilitare ulteriormente il tutto ha contribuito un gruppo di attori che il regista è riuscito a gestire davvero come un corpo unico, smentendo il luogo comune che vuole il nostro cinema attuale

privo di bravi interpreti. Si pensi, un esempio per tutti, al ruolo della Melato, gestito dall’attrice apparentemente con niente, senza abbondanza ma grazie ad una recitazione fatta davvero tutta di accenni, di cose non dette. Resta certo il fim di Rubini un’opera a cui si possono muovere molte critiche: potrebbe lasciare addosso una sensazione di incompiutezza, oppure come di un’opera scarsamente lavorata, di un tronco sbozzato male, tutto sporco di trucioli e senza ancora il lucido, ma rimane forte l’impressione di una certa rudezza che non dispiace, di una favola raccontata senza troppi fronzoli, una storia genuinamente popolare, piena di fascino e incanto e che lascia la sensazione di aver assistito a qualcosa che già si conosceva, che già si era visto e di cui si era già sentito parlare anche se forse non in una sala cinematografica.

Il giorno successivo, pieno dell’ entusiasmo che questa scoperta mi aveva lasciato addosso, sono finalmente riuscito a vedere il nuovo film di Garrone, e la delusione è stata quasi inevitabile. Se tutto quello che Rubini aveva portato sullo lo schermo lo aveva raccontato con tono lieve, con leggerezza e fascino, il film di Garrone mi è apparso subito come un grave presuntuoso ed ingombrante, una pozza torbida che voleva mascherarsi da buco oscuro. Se il regista di “Estate Romana” ne “L’imbalsamatore” era riuscito a costruire un nero all’italiana, affidandosi in primo luogo ad una storia solida e ben strutturata, ricca di suggestioni in un certo qual modo originali, una storia che affascinava come tutto e non come somma delle singole parti, in questo caso, forse spaventato dalla possibilità di ripetersi, rinuncia ad uno sviluppo narrativo compiuto per affidarsi ad una costruzione più libera, come interna ai personaggi. Quello che infastidisce subito lo spettatore appassionato sono le suggestioni lynchiane di seconda mano: il suono usato come soggettiva di una presenza inquietante ma familiare, i movimenti di macchina che si staccano dall’oggettività dell’autore per avvicinarsi alle vicende come un altro personaggio, come un invadente essere alieno. Ma quello che disturba sopra tutto, sopra le ingenuità perdonabili (il protagonista, un amante delle donne anoressiche, vede la donna che ha intenzione di far dimagrire accanto al modello anatomico di uno scheletro), sopra i disequilibri narrativi, è la volontà di Garrone di far poesia. E se è vero che la poesia è sempre una tensione, e che se si dichiara il proprio intento poetico già si è fuori strada, già si sta sbagliando, il regista si stacca troppo spesso dal terreno sicuro della narrazione (che nel cinema, molto spesso, è lo stesso del discorso poetico) per avventurarsi in oscuri sentieri lirici che disturbano per il senso del ridicolo che introducono in una storia la quale avrebbe avuto bisogno di una maggiore solidità d’intenti e di costruzione.

Il protagonista, un orafo che abbandona il proprio lavoro e che per chiudere definitivamente con il passato raschia via tutto l’oro rimasto sulle pareti

della propria bottega per ricavarne infine, due lingotti,appare ridicolo e senza statura,grazie soprattutto ad un uso insistente e inefficace della voce over. Infastidiscono poi i trucchi esibiti ed ereditati dal primo film ma che qui non hanno ragione di essere: la macchina montata su gru o su dolly che si distacca dai protagonisti e va ad inquadrare, grazie a lunghi pianosequenza, un paesaggio urbano che però qui, a differenza dell’imbalsamatore, non ci racconta niente, non ci parla. Quella che poteva essere la storia di un ossessione viene ridotta ad un temino di sceneggiatura che deve includere tutti i capitoli del manuale (l’ambiente, i presupposti sociali etc…) ma che davvero poco aggiungono a quello che ci viene raccontato. Durante gli ultimi minuti del film, quando la voce ritorna a raccontare i pensieri del protagonista e, ancora una volta, come una condanna, la M.d.P. si allontana dai due interpreti per fermarsi sulla città lontana, proprio in un momento come questo che, lo si avverte, dovrebbe essere in qualche modo lirico e coinvolgente, non si riesce a scrollarsi di dosso una sensazione di pochezza e di presunzione che fa rimpiangere quella proiezione casuale del giorno prima.

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