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Riflessioni a freddo su beneficenza e su Ice Bucket Challenge

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Lo dico subito. A me questa cosa dell’Ice Bucket non è piaciuta fin dall’inizio e, avendo avuto modo di rifletterci a fondo, continua a non piacermi. Mi sarei aspettato che di questa mia sensazione ancora non svezzata dal ragionamento, avrei potuto discuterne su quegli stessi social network che hanno decretato l’enorme successo di questa iniziativa. Ingenuo. I SN sono tante cose ma di certo non sono autoriflessivi.

Alla domanda <<è possibile, parlando di un argomento che tocca nervi particolarmente scoperti, come una malattia fortemente invalidante, andare oltre le solite contrapposizioni fra fazioni?>> avrei dovuto subito darmi una risposta negativa. I motivi sono tanti. Innanzitutto perché – e mi riferisco all’ambiente di Facebook, che conosco meglio rispetto ad altri SN, i commentatori più veementi sono, il più delle volte, quelli meno informati. Ad una minor conoscenza dell’argomento si accompagna una inversamente proporzionale volontà di affermare la propria opinione, per quanto questa sia, nel migliore dei casi, basata solo su fattori sentimentali. Del resto chi già sa, perché dovrebbe disperdere la propria conoscenza in interminabili discussioni in cui le regole sono l’insulto e l’approssimazione? Chi vuole informarsi, seriamente, come me, perché non dovrebbe rivolgersi a quegli esperti che, conseguentemente, affidano ad altri canali le loro riflessioni? Informarsi significa anche dissentire o, meglio, insinuare il dubbio. Ma, naturalmente, parlando di un’iniziativa che porta soldi alla ricerca medica, chi dubita è un traditore, un mostro. Probabilmente è peggio di Hitler. Così come, d’altro canto, i vari personaggi più o meno noti che si sono prestati al gioco, ricavandone, comunque la si voglia pensare, visibilità, che vantaggio avrebbero nel mettere in dubbio la legittimità del loro esporsi?

Ed in effetti l’iniziativa in questione sembra difficile da attaccare. Diffondere migliaia di video è servito a raccogliere soldi per sostenere la ricerca su di una malattia terribile, di cui si conosce poco e di cui si parla anche meno? Certamente. Coltivare l’egocentrismo della varia vipperia mondiale è uno scotto che vale la pena pagare di fronte alla possibilità di sconfiggere un tale flagello? Certamente. Prendendo atto di questi fattori, l’iniziativa resta legittima? Non necessariamente. E questo per diversi fattori.

Partiamo dal fatto che vedere un Presidente del Consiglio o una qualsiasi altra carica istituzionale buttarsi un secchio di acqua gelata in testa per invitare a donare per la ricerca medico scientifica a me fa venire i brividi…e non sono brividi di freddo. Del fatto che per il tipo di immaginario che Renzi sta cercando di creare intorno alla propria figura politica partecipare fosse quasi inevitabile ne ha già parlato Massimo Cacciari. Così il filosofo veneziano si esprime paragonando la figura di Obama – che non ha partecipato all’iniziativa – a quella del premier italiano:

Obama ha fatto la persona seria, ma lui se lo può permettere, Renzi forse no. Lui è un giovane che è nato, si è formato, negli anni in cui è proliferata quest’idea di politica qui. Uno che fa la politica come la fa Renzi, lo dico senza acredine, è perfetto per l’Ice Bucket – secondo Cacciari – Tra l’altro se lo coinvolgono in un gioco del genere, lui mica può tirarsi indietro: lo accuserebbero di snobismo.

Ma l’accusa di snobismo non mi sembra la più grave che si può portare a Matteo Renzi. Che rispetto all’iniziativa benefica prevalga la volontà di partecipare, di rendersi visibili è reso evidente dal contestatissimo video del Ministro Marianna Madia la quale, al termine dell’esibizione si dimentica di collegarla all’iniziativa benefica. Torniamo però a Renzi cioè, per dirla in altro modo, allo Stato. Lo stesso Stato che dovrebbe finanziare e favorire la ricerca, quindi, suggerisce ai cittadini – più o meno facoltosi, più o meno vip – di donare per sostenere la causa della SLA. Anzi, in conclusione del video Renzi chiede ai direttori dei giornali di replicare il suo gesto perché <<sarebbe il segno che di SLA non si parli solo quando ci sono gesti come questo>>. Al di là del fatto che mi risulta difficile capire come un gesto episodico fatto dal direttore di un giornale sulla scia di un evento ancora in corso possa prolungare la riflessione sulla SLA, mi sarebbe sembrato più logico e “nobile” che il nostro primo ministro si  fosse impegnato come rappresentate dello Stato a sostenere concretamente la ricerca, piuttosto che come uomo a chiedere ad altri di farlo. Lo Stato, insomma, attraverso uno dei suoi più alti rappresentati, delega il proprio ruolo. E non, si badi bene, all’interno di una situazione emergenziale, come può essere quella che segue un terremoto o un’alluvione,fatti che, al di là delle legittime polemiche sulla mancanza di prevenzione, devono essere per così dire tamponate anche con l’aiuto estemporaneo dei cittadini. Di SLA non si parla certo da ieri e non da ieri è diventata il dramma che è. C’è stato tutto il tempo per lo Stato per “metterla a bilancio”, ma Renzi, invece di portare avanti una riflessione sulla situazione della ricerca in Italia – su cui non mi esprimo, non avendone una conoscenza approfondita – delega ai cittadini, si fa portavoce. Ecco, è questo che mi fa rabbrividire.

Eppure, al di là della convenienza di chi cavalca questo fenomeno per promuovere, più o meno velatamente, se stesso, la propria immagine o il proprio prodotto, i soldi arrivano. Questo è un fatto. Ed è negativo? Nel breve periodo sicuramente no. Sul lungo periodo avrei qualche dubbio in più. Questa spettacolarizzazione della beneficenza che conseguenze potrebbe avere? I soldi dei donatori, naturalmente, sono limitati. Più limitata dei soldi dei donatori è la loro capacità di mantenere l’attenzione. Quanti, fra quelli che hanno donato, lo ha fatto per scelta consapevole? Perché si è sostenuta proprio la ricerca sulla SLA (che sicuramente ha gran bisogno di sostegno)? A che punto è attualmente la ricerca sulla SLA e quale consapevolezza si ha di questo? Che speranze ci sono di trovare una cura? Conseguentemente, quanto è giusto indirizzare i fondi verso la ricerca piuttosto che verso l’assistenza, domiciliare o meno dei malati? Ancora:  cosa succederà, non tanto alla ricerca sulla SLA, ma al sistema delle donazioni nel suo complesso dopo che l’entusiasmo per le secchiate ghiacciate sarà scemato? Renzi, come vuole l’immagine che di sé vuole restituire, mette davanti al “perché farlo?” il “va fatto perché va fatto”, e così quasi tutti gli altri, ministri, vip e non vip che negli ultimi tempi si sono filmati mentre si buttavano addosso secchiate di acqua più o meno ghiacciata.

Esistono circa sei-settemila malattie rare accertate, e per chi le contrae la vita non è certo facile perché, colpendo queste un numero molto ristretto di persone, non attraggono l’interesse commerciale delle cause farmaceutiche, che si occupano dello sviluppo e della commercializzazione dei farmaci. Inoltre, per diversi motivi, chi contrae una malattia rara, diventa un paziente costoso, sia per il prezzo elevato delle cure, sia perché bisognoso di assistenza. Si può sperare che il successo dell’Ice Bucket Challenge porti ad allargare l’attenzione sulle malattie rare nel loro insieme? O rischia di innescare semplicemente una guerra di marketing che oltre a non fare del finanziamento alla ricerca un sistema – il che sarebbe compito dello Stato – alla lunga annoierà i donatori? Cosa si dovranno inventare, che so, gli emofiliaci per attirare attenzione e denaro sulla propria condizione? Un’attenzione che, prima dell’ IBC sembra fosse carente anche da parte di chi non poteva portare l’ignoranza e le mancanze del sistema informativo-giornalistico a sua discolpa.

Luca Dini, direttore di Vanity Fair Italia, ha scritto un editoriale molto duro intitolato IceBucketChallenge: La differenza tra l’America e noi, in cui si scaglia contro i detrattori di questa iniziativa. L’editoriale ha raggiunto una grandi diffusione grazie alla sua vigorosa e un po’ imbarazzante conclusione:

Dedicato a tutti quelli che mi hanno fatto notare, in questi giorni, quanta differenza c’è tra il nostro milione di euro (voglio essere audace: ci arriveremo, credo e spero, per la Giornata della Sla) e i cento milioni di dollari a cui arriveranno in America. C’è una differenza fondamentale, tra noi e l’America. Quella differenza siete voi, patetiche teste di cazzo.

All’articolo di Dini, cui ha risposto anche Loredana Lipperini con un intelligente commento sul suo blog, verrebbe da dire che le differenze fra noi e l’America sono altre, come l’esistenza o meno di un sistema sanitario nazionale e un diverso rapporto con il concetto di beneficenza, dipendente dalle diverse matrici culturali, cattolica e protestante, che hanno dato forma ai due paesi. Vorrei però focalizzarmi, a differenza di altri, più che sulla chiusura sull’apertura dell’articolo:

Ora, avrò un deficit d’autostima, ma mostrarmi in pubblico con i (pochi, ormai) capelli bagnati non è esattamente la mia idea di una buona giornata. Potete crederci oppure no: problema (serio) vostro. Quello che non vi permetto di mettere in dubbio è che io la donazione all’Aisla l’ho fatta. E presto, a nome della redazione che ho nominato, ne farò un’altra.

E’ mai possibile, mi chiedo, che il direttore di una delle più importanti testate italiane, doni alla ricerca sulla SLA solo dopo quella che è a tutti gli effetti, una riuscitissima operazione di marketing? Magari non è così, magari Dini è uno storico sostenitore di questa causa, ma certo questo è quello che il suo articolo comunica. Ed è possibile, di nuovo, fra i moltissimi aderenti e i molti commentatori, che nessuno abbia fatto presente che l’Aisla, l’organizzazione di riferimento per questo evento mediatico in Italia, non sia certo l’unica che si occupa di SLA e di malati di SLA, come invece evidenziato da Stefano Piccoli in un suo post su Facebook?

Gli obiettivi della nostra beneficenza devono davvero essere orientati dal marketing? L’esempio di un vip (e non venitemi a dire che non sono stati loro il vero motore di questa cosa, piuttosto della tanta gente comune che ha aderito) può essere davvero essere il nostro solo o comunque preferenziale criterio di scelta? Possiamo davvero donare secondo gli stessi crismi che ci portano a comprare un pacco di patatine piuttosto che un altro? O, perfino, è lecito donare secondo criteri sentimentali? Credo che siano domande legittime. Su questo specifico passaggio, a cui si riferisce anche l’immagine seguente, potete trovare due approfondimenti molto interessanti QUI e conseguentemente QUI.

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Ancora: senza mettere in dubbio l’onesta delle organizzazioni collegate all’IBC chi ha donato può davvero essere sicuro che queste sfrutteranno i suoi soldi nel migliore dei modi? Ridurre la donazione ad un gesto superficiale – tenendo sempre presente che alla beneficenza si dovrebbe preferire l’azione politica, a più ampio raggio e più lungimirante, se ben condotta – a cosa porta? Evidentemente non ad un maggiore coscienza. Aprire il portafoglio e svuotarlo di un poco non fa di noi persone migliori né donatori più consapevoli, anzi, ci libera sia dal senso di colpa che dell’incombenza di pensare. Se potessimo donare e donare fino a soddisfare le esigenze di tutti i centri di ricerca, di tutte le onlus, di tutte le associazioni umanitarie il problema non si porrebbe ma visto che questo non è possibile, sapere come i nostri soldi andranno spesi è una condizione irrinunciabile se non vogliamo solo scaricare la coscienza o partecipare al giochino del momento.

Quando pongo queste questioni, solitamente la domanda che mi viene fatta è: tu doni? A parte il fatto che non è doveroso diffondere questo tipo di informazioni, perché si tratta di un atto che è legittimo mantenere all’interno della propria sfera privata, la mia risposta è sì. Naturalmente lo faccio in maniera commisurata ai miei mezzi, secondo criteri che naturalmente possono essere messi in discussione, ma che cercano di essere oggettivi, fornendo una continuità al mio contributo. Questo naturalmente non toglie che le donazioni possano essere sporadiche, emergenziali, o di altra natura. Quindi, da donatore, non posso che essere contento che tutti questi soldi si siano riversati nelle casse di chi si occupa di ricerca sulla SLA, così come lo sarei ancor di più se potessi essere certo che a questo enorme flusso di denaro corrisponda anche una crescita rispetto alla consapevolezza che si ha di questa malattia, o di altre, in caso di future iniziative simili. Questo vuol dire che auspichi che questo modello di marketing della beneficenza prenda piede? Assolutamente no.

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Godzilla, un probabile successo commerciale (che finirà dimenticato)

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Snowpiercer – Le transperceneige, dal fumetto al film

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Biancaneve e verde fiamma, l’esordio di Romano Scarpa su Topolino

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Andrea Scanzi, il vino, Matteo Renzi – e Topolino

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Qualche parola veloce sull’intervento di Dario Fo al Vaffa Day del primo dicembre 2013

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L’intervento di ieri di Dario Fo al Vaffa Day è stato un capolavoro. E’ riuscito a mettere insieme tutte le cose peggiori di quello che è stato, di quello che è, di quello che siamo stati, di quello che saremo e (speriamo di no) continueremo ad essere. Il tutto può essere riassunto in una sola, orribile parola, che invece il premio Nobel ha assunto come cardine principale della propria retorica: la nostalgia. La nostalgia, su basi reali o immaginarie, è trasversale e comune ad ogni ideologia. Il fascismo (“Quando eravamo un impero”/”Quando bonificavamo la pianura pontina”), i nostalgici del PCI, i nostalgici di ben altro (“adda venì baffone”), il nasizmo “Quando andavamo a petto nudo a combattere i draghi per salvare la bella Brunilde) il socialismo partitico (“Craxi ha rubato, ma lui sì che era uno statista, mica Berlusconi”) i Democristiani (quando erano loro il primo partito…vabbè, non che sia cambiato poi molto) e infine il grillismo. Solo che la nostalgia grillina, ammantata di green economy e tecnologismi vari, si perde nel passato del secondo dopoguerra, quando eravamo una potenza industriale in crescita, quando speravamo, quando eravamo poveri ma pieni di valori, quando “si stava peggio ma si stava meglio”. Fo osa di più, torna al Medioevo, al Rinascimento, quando eravamo famosi in tutto il modo, quando costruivamo i teatri per gli inglesi, etc. Sarebbe come sentire un olandese dire “ah, quando eravamo la prima potenza commerciale d’Europa prima che la bolla speculativa sul commercio di papaveri affossasse la nostra economia” o un inglese rimpiangere l’impero (vabbè, questa è più che un’ipotesi). Dobbiamo tornare ad essere grandi, secondo Dario Fo, in sostanza perché lo siamo stati, per una sorta di determinismo genetico che continua a lavorare dentro di noi nonostante le cattive abitudini sociali (e la mala politica) ci impediscano di esprimere tutte le nostre possibilità. Una sorta di poetica mitica del “mady in italy” come eugenetica del mondo, del gusto come determinazione, della fantasia come marchio di fabrica imprescindibile. Come i vecchi, Fo, rimpiange il passato. Solo che rimpiange un passato che non ha mai vissuto e di cui si guarda bene dal mettere in evidenza le moltissime contraddizioni. Senza, inoltre, proporre soluzioni concrete per il futuro (non è il suo ruolo, sia chiaro) ma affidandosi ad un generico “guardiamo indietro per andare avanti” La storia come racconto mitizzato, come “terra di nessuno” su cui impiantare la propria ideologia. Io ci vedo del fascismo strisciante in questo, ma naturalmente sono solo un nemico del popolo.

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Speciale 50 anni di Spider-Man – Un ragno cinematografico

Un mio articolo sui film di Sam Raimi dedicati all’uomo ragno per il blog Conversazioni sul fumetto

(cliccare sull’immagine per il link)

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